Profilazione online, le pratiche commerciali e il difficile equilibrio tra aspetti economici e giuridici

L’elaborazione dei big data attraverso algoritmi sempre più sofisticati consente di creare profili utenti che vengono poi sfruttati dalle aziende per la realizzazione di campagne mirate di online marketing. Come difendere o far fruttare i propri dati.

Pubblicato il 27 Gen 2020

Il ruolo chiave dei 5v Big Data nella trasformazione digitale

L’elaborazione dei big data attraverso algoritmi sempre più sofisticati che individuano numerose correlazioni tra gli stessi consente di creare profili utenti che vengono poi sfruttati per la realizzazione di campagne mirate di online marketing dai settori finanziario e assicurativo, dagli specialisti nella selezione del personale e per altre e numerose finalità.

Le pratiche più a rischio utilizzate ad esempio dalle campagne di advertising nell’agorà digitale (o sarebbe meglio dire “giungla”?) possono essere molteplici, tra queste: remarketing, neuromarketing o marketing emozionale, social login, voice assistant. La definizione normativa di profilazione prevista dall’art.4 del GDPR e l’insieme delle preziosissime indicazioni contenute nelle “Linee guida sul processo decisionale automatizzato relativo alle persone fisiche e sulla profilazione ai fini del GDPR” descrivono gli elementi costitutivi della profilazione: trattamento automatizzato che ha a oggetto dati personali con il fine di analizzare, valutare e predire aspetti personali, gusti e caratteristiche degli utenti della rete. L’individuazione delle caratteristiche e preferenze degli utenti, come noto, avviene attraverso la raccolta massiva dei dati della navigazione in rete da parte degli utenti.

La creazione di un privacy value

In un’intervista, Crescenzo Abate, partner di Xister, azienda specializzata nella progettazione e nell’implementazione di soluzioni basate sui nuovi canali di comunicazione e media, ha sottolineato che nonostante le norme stiano cercando di difendere l’utente finale da questa aggressiva richiesta di dati, dalla cosiddetta “ultraprofilazione”, le aziende di advertising continuano a esortare i propri committenti a prendere dai propri clienti o potenziali tali, un surplus valoriale di dati da utilizzare per la business analisys. “La privacy è un valore”, riconosce Abate, “perché non creare un privacy value?”

Partendo dall’ormai diffusa consapevolezza che i big data sono il Sacro Graal del terzo millennio, la domanda che l’intervistato rivolge a noi, giuristi, esperti o semplici utenti di servizi solo fittiziamente gratuiti (la consapevolezza di ciò è ormai sempre più diffusa), “perché non provare a dare un valore al proprio social graph? Quanto può valere cedere la conoscenza del nostro comportamento, dei nostri gusti? Cosa possiamo avere come corrispettivo”?

Oltreoceano la Iota Foundation e la Jaguar Land Rover hanno concluso una partnership in base alla quale sulle auto dei soggetti che prestano il consenso viene installato un wallet intelligente che registra un insieme di informazioni utili soprattutto alle autorità locali, che possono ad esempio conoscere i dati di traffico o lo stato di manutenzione delle strade, come controvalore il conducente riceve criptovaluta con cui poter pagare beni o servizi quali: pedaggi, parcheggi o rifornimenti.

L’orientamento in Italia

L’attuale Garante per la privacy italiano, Antonello Soro, ha numerose volte affermato la piena contrarietà alla monetizzazione dei dati, sostenendo che si tratta di una vera e propria questione democratica e insiste sul concetto che occorre sempre rispettare la privacy anche in fase di progettazione algoritmica dei servizi, nel pieno rispetto dell’importante principio della privacy by design. Anche Francesco Maria Pizzetti, ex Garante, sostiene che i dati personali non possono essere considerati come moneta o merce di scambio. Ai giuristi è ben noto che su questo tema si contrappongono due importanti diritti fondamentali, previsti all’art. 8 (sulla protezione dei dati personali) e all’art. 16 (sulla libertà di impresa) della Carta di Nizza; è inoltre difficile immaginare un sistema che controlli il numero dei possibili utilizzi da parte dell’imprenditore dei dati acquisiti dall’utente interessato.

“Un salto qualitativo nell’evoluzione del capitalismo”

Ma in futuro non potrebbe aprirsi uno scenario che veda in sofisticati algoritmi lo strumento idoneo a controllare il numero e le modalità di utilizzo dei dati forniti dall’utente, interessato al trattamento? L’intelligenza artificiale non potrebbe essere addestrata anche per simili scopi?

Il contratto a titolo oneroso tra soggetto interessato e imprenditore non potrebbe disciplinare anche questi delicati aspetti?

Da giurista cerco io stessa risposta. Un’istanza a favore della monetizzazione dei dati arriva anche da  Marco Pierani, impegnato nella tutela dei consumatori (EuroConsumers), che afferma “la monetizzazione dei dati dovrebbe essere sempre possibile, occorre una presa d’atto, il consumatore è al centro di un ecosistema digitale dove il diritto alla libertà di impresa e della tutela dei dati personali dei consumatori non andrebbero considerati in assoluta contrapposizione”. È chiaro che in un possibile processo di avvicinamento di queste ancora contrapposte esigenze di tutela (libertà economica e tutela della riservatezza), la stella polare dovrà sempre essere il rispetto dei fondamentali principi a tutela dei diritti dell’interessato al trattamento: informative chiare, effettiva trasparenza nei rapporti con l’utente e acquisizione di un consenso realmente informato.

Il GDPR è una norma fondamentale, frutto di un lungo lavoro tra esperti, in continua evoluzione grazie all’elaborazione costante di linee guida da parte del Comitato europeo per la protezione dei dati (Edpb). I preziosi documenti tengono sempre in altissima considerazione i principi giuridici e l’evoluzione tecnologica in atto, il grande fermento è sotto gli occhi di tutti, ma le prassi commerciali dimostrano che ancora molti sforzi occorrono per trovare equilibri soddisfacenti tra il diritto e il contesto economico. L’apparato sanzionatorio sta già producendo i propri effetti dissuasivi contro pratiche commerciali scorrette e questo è un ottimo risultato, ma è come se due mondi, per alcuni versi ancora lontani, dovessero trovare sempre nuove mediazioni.

Il legislatore sta già dimostrando di non ignorare le ragioni imprenditoriali, ma è ormai tempo che anche “il mondo dell’impresa si impegni in un salto qualitativo nell’evoluzione del capitalismo”, come ha scritto Shosana Zuboff, docente di amministrazione aziendale alla Harvard Business School.

Molti di noi ancora ignorano che quando soddisfacciamo i nostri bisogni in Rete compromettiamo la nostra privacy; se lo sappiamo, anche noi giuristi, ne trascuriamo la piena portata e allora certamente dobbiamo sempre più educarci ed educare alla Rete (la cosiddetta “educazione digitale”), e noi tutti non possiamo non condividere l’appello della Zuboff rivolto ai big player e chiedere loro uno “sforzo creativo per cambiare la traiettoria del futuro digitale e riportarla verso le persone”.

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