Data communication

Data Storytelling: cos’è e come si trasmettono i dati con la narrazione

Il data storytelling è una tecnica che comunica gli insight dell’analisi dei dati attraverso la forza emotiva di una narrazione: come funziona la ricerca dei pattern, come utilizza la data visualization ed esempi

Pubblicato il 07 Nov 2022

Josephine Condemi

giornalista

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I dati da soli non bastano: per comunicare al meglio le evidenze ricavate dalla data analysis occorre anche un coinvolgimento emotivo. Ecco perché è nato il data storytelling, che abbina la forza delle storie alla concretezza dei dati per invitare all’azione.

Cos’è il data storytelling

Data storytelling significa, letteralmente, “raccontare una storia attraverso i dati”. Ovvero, utilizzare gli insight ottenuti dall’analisi dei dati per comunicare al meglio un messaggio, quindi ispirare una o più azioni ai destinatari.

Infatti, spesso non bastano numeri e grafici per comunicare efficacemente le informazioni: i dati contenuti nelle dashboard e nei fogli di calcolo fotografano una situazione ma sempre non ne spiegano le relazioni o i rapporti causa-effetto. Serve quindi una narrazione, un frame di interpretazione che colleghi passato, presente e futuro a beneficio di tutti gli stakeholder, aziendali e territoriali.

Il data storytelling è un metodo che contribuisce a formare un orizzonte di senso, attraverso storie emotivamente coinvolgenti e realizzate nella lingua e nel formato adatti al pubblico che le ascolta.

Le scienze cognitive sono infatti ormai concordi nell’affermare che conosciamo attraverso le emozioni, e che l’apprendimento dipende non solo dal contenuto razionale del messaggio, ma anche e soprattutto dall’emozione associata al contenuto e vissuta al momento della sua trasmissione. E le storie sono tra i più semplici e antichi vettori di emozioni tra gli esseri umani.

Per formare e/o modificare un orizzonte di senso, però, occorrono elementi condivisi tra emittenti e destinatari: un sottotesto “implicito” che esprime le coordinate culturali entro cui i dati, tutti i dati, si inseriscono.

La relazione con i big data

Il data storytelling non nasce con i big data: la comunicazione si è spesso servita della forza dei dati per dare concretezza alle storie. Tuttavia, è solo con l’analisi dei big data, e quindi con lo sviluppo degli algoritmi di Intelligenza Artificiale, che il data storytelling si è evoluto in quantità dei dati e qualità degli insight a disposizione.

Questo ha determinato, da una parte, la necessità di rendere immediatamente comunicabili i risultati delle dashboard, dall’altra, una più attenta riflessione su quali siano i dati che usiamo nelle analisi e perché.

Un dato infatti non è solo mai “dato”, ma sempre “costruito” per contribuire a rispondere alle domande del modello di analisi. Ogni scelta di implementazione di un modello di ricerca, dalle tempistiche agli strumenti utilizzati, non è mai neutra, ma funzionale all’obiettivo dell’analisi.

Vale per i dati quello che vale per le storie: bisognerebbe sempre chiedersi qual è la fonte, a quale scopo sono stati raccolti, a beneficio di chi, cosa (o chi) è rimasto fuori dal modello.

In particolare, l’utilizzo dei big data e dell’intelligenza artificiale con l’apprendimento automatico, sia supervisionato che non supervisionato, ha fatto emergere il problema dei bias cognitivi: le distorsioni di interpretazione della realtà causate da pregiudizi, da episodi della propria esperienza, dalla poca rappresentatività del campione scelto.

Data storytelling: la ricerca di pattern nei dati

Gli algoritmi di apprendimento automatico, o machine learning, vengono usati per trovare nei database i pattern, o schemi ricorrenti, da cui descrivere i processi in corso o predire gli scenari futuri.

In particolare, la ricerca dei pattern è proprio del data mining, una parte del Knowledge Discovery Database: il data mining (lett: estrazione di dati), pre-elabora i dati da fonti anche eterogenee e ne trova le correlazioni. Utilizza algoritmi di apprendimento supervisionato, ovvero dotato di “etichette” già stabilite per ogni classe di dati, oppure non supervisionato, con le categorie che emergono dall’analisi del dataset.

data mining

È il caso del clustering, che individua tra i dati gruppi con caratteristiche simili (i cluster). Tra le diverse tecniche di clustering, le più comuni sono: l’analisi dei componenti principali; il clustering k-means che aggrega i dati in gruppi simili; l’analisi gerarchica con diagrammi ad albero, che può essere agglomerativa, dai nodi singoli ad un unico cluster, o divisiva, dal cluster unico a piccoli cluster singoli.

Tra gli algoritmi di apprendimento supervisionato, tra i più diffusi ci sono gli algoritmi di classificazione, che distinguono i dati sulla base delle classi già individuate. Sono algoritmi di classificazione: l’albero decisionale, la backpropagation nelle reti neurali artificiali, gli algoritmi genetici, i “vettori di supporto”, i lazy learners, gli algoritmi a logica fuzzy, le reti bayesiane. Un’altra tecnica è l’estrazione di pattern sequenziali, cioè di sottosequenze che si ripetono spesso nel database.

Una volta individuati e pre-elaborati, dai pattern di dati vengono ricavate informazioni utili sulle dinamiche in corso o sugli scenari più o meno probabili in futuro. Per comunicare queste informazioni, un primo passo è la data visualization.

L’utilizzo della data visualization

La data visualization o visualizzazione di dati più antica è la mappa. Le rappresentazioni sulle mappe cambiano a seconda del fine a cui sono destinate: si parla quindi di diversi livelli di astrazione.

Ad esempio, una mappa della metropolitana potrà essere utile ai viaggiatori, e quindi riportare tutte le fermate e gli snodi delle diverse linee, oppure ai manutentori, e quindi rappresentare le distanze reali in scala tra una stazione e l’altra.

I dati possono essere visualizzati sotto forma di tabelle, diagrammi di Gantt, grafici (a barre, a torta, a isolinee, a proiettile, istogramma), infografiche, mappe di geolocalizzazione.

L’analisi dei big data ha aperto all’utilizzo delle dashboard, i pannelli di controllo che riassumono le visualizzazioni principali tratte dall’elaborazione. Gli insight vengono quindi tradotti in istantanee a colpo d’occhio, utili a ricevere risposte tempestive ma spesso insufficienti a capire e ricostruire il contesto da cui quei dati sono stati estratti.

Ecco che viene in aiuto il data storytelling con la narrazione verbale o scritta che comunica il contesto degli insight e ispira le azioni raccomandate a chi legge o ascolta.

Un esempio di data storytelling è proposto dall’ufficio ONU dedicato al contrasto di droghe e criminalità, lo United Nation Office of Drugs and Crime, per comunicare la propria strategia 2021-2025 contro le droghe sintetiche: la crescita del mercato e le azioni di contrasto vengono visualizzate attraverso una precisa scansione di grafici e immagini che le raccontano in modo interattivo.

Un altro esempio è l’approfondimento realizzato da The Pudding sulle domande rivolte a “Dear Abby”, la rubrica di consigli più longeva degli USA: un corpus di 20.000 lettere che diventa un’indagine di costume sulle preoccupazioni degli Stati Uniti dagli anni Ottanta al 2017. In fondo, un’appendice metodologica che spiega come e perché sono stati raccolti, usati ed elaborati i dati. Il data storytelling accurato non può prescindere dalla trasparenza.

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