Coronavirus, Canducci: “Su data tracing serve un passo in avanti”

Il Chief innovation officer di Engineering: “Si potrebbe creare un paradosso: cediamo normalmente i nostri dati alle aziende che ne fanno un uso commerciale, ma non vogliamo che siano utilizzati per salvarci la vita”

Pubblicato il 24 Mar 2020

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Nel momento in cui si parla sempre più insistentemente di data tracing e della “via Coreana” per combattere il contagio da Coronavirus, con il ministro dell’Innovazione tecnologica e della digitalizzazione che ha lanciato una call per fare una cernita delle migliori tecnologie disponibili, si è aperto il dibattito sulla privacy e sull’utilizzo dei dati generati attraverso gli smartphone. Alla discussione, che non è di facile risoluzione, hanno partecipato tutti gli addetti ai lavori e gli esperti di privacy, cercando di capire se c’è una possibilità di utilizzare le tecnologie digitali per dare un contributo al contenimento del contagio. 

“Le procedure per il contenimento della diffusione sono per lo più basate sul tentativo di individuare i soggetti contagiati e sul tentare di ricostruire insieme a loro quello che hanno fatto nei giorni precedenti, in una sorta di reazione a catena che, se non interrotta nelle sue fasi iniziali, potrebbe diventare incontenibile – afferma Massimo Canducci (nella foto a fianco), Chief innovation officer del gruppo tecnologico italiano Engineering – L’individuazione del grafo di contagio è un’operazione lunga, complessa e in cui il tempo è una variabile determinante: prima si riescono ad individuare ed avvertire le persone potenzialmente contagiate, prima si può dar loro assistenza e contemporaneamente limitare il diffondersi dell’epidemia impedendo che questi entrino in contatto con altri soggetti”.

E se in una situazione di pandemia questa operazione viene effettuata intervistando le persone, è inevitabile che ci voglia molto tempo e si vada incontro a errori, imprecisioni e potenziali omissioni volontarie.

“In Corea del Sud la questione è stata affrontata in modo molto pragmatico – prosegue Canducci – utilizzando tutte le informazioni disponibili allo scopo di identificare i cittadini potenzialmente infetti e prevenire il contagio di altre porzioni di popolazione. Tra le informazioni disponibili ci sono anche le immagini delle telecamere di sicurezza, le transazioni delle carte di credito, i dati di posizionamento rilevati da smartphone e automobili. Tutte queste informazioni sono state rilevate, incrociate ed elaborate e questo ha consentito di ridurre drasticamente le dimensioni del grafo di contagio. L’altro lato della medaglia – continua – è costituito dal fatto che talvolta si è fatto dei dati un utilizzo un po’ troppo disinvolto, comunicando alla popolazione informazioni anonimizzate che hanno comunque consentito di individuare alcuni cittadini potenziali portatori del virus oppure alcuni comportamenti che quegli stessi cittadini avrebbero preferito rimanessero nell’ombra”.

Se volessimo spostare l’attenzione sulla situazione in Italia, “esiste una gigantesca base dati completa, precisa ed affidabile, in grado di fornire l’informazione puntuale di dove fossimo in un certo momento e con chi – sottolinea Canducci – fornendo al tempo stesso i dati anagrafici ed i relativi spostamenti successivi di tutte le persone che abbiamo incontrato nel periodo di osservazione. Si tratta dell’enorme mole di informazioni generate da noi stessi attraverso gli smartphone, dispositivi che sono utilizzati dalla quasi totalità della popolazione, strumenti che in ogni istante memorizzano le informazioni sulla nostra posizione e le utilizzano per scopi commerciali, per migliorare il nostro profilo da consumatore o per metterci meglio in relazione con i nostri contatti sui social. Se invece di utilizzare la tecnica delle interviste fossimo in grado di accedere direttamente a queste informazioni avremmo i dati immediatamente, senza possibilità di errori, e saremmo in grado di individuare ed avvertire in tempo reale, attraverso gli stessi smartphone, le persone che sono entrate in contatto con loro, invitandole a comportamenti che non mettano a rischio la loro salute e quella degli altri, e bloccando di fatto la diffusione della malattia, con semplicità e rapidità”.

E questa possibilità ci pone, secondo il Cio di Engineering, di fronte a un “terribile paradosso”, “per cui noi produciamo dei dati con i nostri comportamenti quotidiani, li cediamo ad aziende private che ne fanno un uso commerciale aiutandoci a scegliere un prodotto o proponendoci una vacanza, ma questi dati non possono essere utilizzati da quegli enti dello Stato che invece stanno lavorando per salvarci la vita e che attraverso quei dati potrebbero migliorare enormemente la loro efficienza”.

“La situazione si complica ulteriormente quando dai semplici dati geografici proviamo a spostare l’attenzione sui dati sanitari rilevati da altri tipi di dispositivi personali indossabili come gli smartwatch, molti di noi infatti utilizzano dispositivi in grado di rilevare il battito cardiaco, la temperatura corporea, la pressione arteriosa e di effettuare veri e propri elettrocardiogrammi. Questi dati vengono solitamente utilizzati per costruire una sorta di profilo sanitario dell’utente e in alcuni casi hanno contribuito ad individuare precocemente qualche problema di salute – aggiunge – È del tutto evidente che, durante l’azione di contrasto di un’epidemia potrebbe essere utile, per chi se ne occupa direttamente, sapere che in certe zone del territorio nazionale ci sono numeri anomali di persone con parametri vitali fuori norma o fuori statistica”.

Si tratta però di informazioni che “purtroppo, nonostante siano prodotte da noi – spiega l’esperto – non sono nelle disponibilità degli enti che potrebbero usarle come strumento utile a salvare le nostre vite”.

“Nel prossimo futuro sarà importante affrontare questi temi su scala internazionale, individuare le modalità con cui far convivere le norme che tutelano la nostra privacy con eventuali esigenze eccezionali che dovessero verificarsi – afferma Canducci – Sarà essenziale aggiungere al concetto di “data monetization” un più moderno concetto di “data sustainability” per fare in modo che l’insieme dei dati che produciamo come individui possa essere utilizzato in varie modalità, tutelando il più possibile la nostra riservatezza, per aiutare le autorità in situazioni eccezionali in quei processi che hanno l’obiettivo di salvare le nostre vite. Quel che andrebbe fatto è individuare le giuste modalità che consentano alle istituzioni, in situazioni di emergenza sanitaria, l’accesso ai dati prodotti dai cittadini con i loro smartphone e i loro dispositivi wearable, dati che solitamente sono utilizzati per fini di profilazione commerciale, in modo che possano essere utilizzati per aiutare i cittadini stessi, consentendo loro di non ammalarsi, di non contagiare il resto della popolazione e spesso salvando loro la vita. Bisogna arrivare a concepire un modello secondo il quale se il dato può contribuire a salvare la vita delle persone, allora quel dato deve poter essere responsabilmente utilizzato”.

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